II DOMENICA DEL TEMO ORDINARIO
19 gennao 2020
Is 49,3.5-6, dal Sal 39, 1 Cor 1,1-3, Gv 1,29-34
Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!
Per cogliere la ricchezza del breve brano evangelico che segna la liturgia di questa domenica, partirei dalla seconda lettura.
Si tratta delle prime righe della prima lettera ai Corinzi di San Paolo. Oggi le lettere, quasi quasi non si scrivono più, ma in ogni caso, ci viene naturale ancora mettere la nostra firma alla fine.
Nell’antichità invece si cominciava a scrivere una lettera partendo proprio dalla firma del mittente e dal destinatario, con le qualifiche di entrambi, per specificare il tenore e il valore dello scritto.
L’inizio della lettera di Paolo è inequivocabile: egli definisce se stesso «chiamato ad essere apostolo», per mettere in evidenza che la forza delle sue parole stava tutta in una missione che non si era scelto per ambizione, ma alla quale era stato chiamato da Dio.
La lettera è destinata alla comunità di Corinto: Paolo la qualifica in un modo straordinario che aiuta anche noi ad avere consapevolezza di ciò che siamo per grazia di Dio. (continua a leggere)
Paolo scrive: «alla Chiesa di Dio che è a Corinto». Non è la Chiesa di Corinto, perché Corinto appartiene a questo mondo che passa, e la Chiesa non prende nome dal mondo, ma solo da Dio.È Dio dunque che ci convoca (la parola Chiesa significa appunto “convocazione”). E poiché Dio è uno solo, la Chiesa non può che essere una sola, come ripeteremo tra poco nel Credo: «la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica».
L’unità è la prima qualifica di Dio: «Credo in un solo Dio» e la Chiesa porta questa impronta divina proprio per il fatto di essere congregata nell’unità dalla dispersione.
E come Dio è uno nella Trinità delle persone, così la Chiesa è una nella comunione perfetta dei molti.
Vale la pena di ricordare che la Chiesa è “una” in senso assoluto: non solo in senso geografico, ma in tutta la sua estensione; non esiste la chiesa primitiva e la chiesa del medioevo, la chiesa del terzo millennio e la chiesa tridentina: è sempre l’unica voce di Dio che in ogni tempo e in ogni luogo ci chiama a essere la sua Chiesa.
Può cambiare la geografia, può cambiare la storia: al nome di Corinto potremmo sostituire il nome di Bologna; al primo secolo potremmo mettere il secolo XXI; cambiano apparentemente molte cose, se le guardiamo con lo sguardo di uno storico o di un sociologo; ma se lo vediamo nella fede, è identica la chiamata e la vocazione: noi siamo quelli che «in ogni luogo» – e possiamo aggiungere “in ogni tempo” – «invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo».
Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è entrato nel mondo in un punto preciso del tempo e dello spazio, della storia e della geografia, ma la forza del suo Spirito ha riempito tutto il mondo e tutta la storia.
Fatti accaduti lontano da noi, nel tempo e nello spazio, ci riguardano personalmente e ci toccano: noi qui e oggi siamo convocati dalla stessa identica parola, dalla stessa identica persona, siamo riuniti dallo stesso identico amore, per diventare una cosa sola: «la Chiesa di Dio».
Tra l’altro, siamo appena entrati nell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani e possiamo comprendere come tutti siamo interpellati, a prescindere dal fatto che le divisioni confessionali ci riguardino personalmente, se la questione di ortodossi e protestanti ci tocchi direttamente o meno: la chiamata alla santità, cioé ad essere nell’unità della Chiesa, è la nostra identità, la nostra missione, ciò che ci fa essere di Dio e non del mondo, ciò che ci fa essere “sempre” e non solo “adesso”.
«Santi per chiamata», dice san Paolo: non c’è altro ecumenismo, se non la santità, cioé la nostra personale e comunitaria relazione con Cristo nel suo Spirito.
Ed ecco il brano evangelico di questa domenica che ci fa sostare ancora sulle rive del fiume Giordano, per raccogliere la testimonianza di Giovanni Battista.
Oggi guardiamo al Signore Gesù con gli occhi di Giovanni. Sono occhi che contemplano, occhi del profeta che riconoscono nelle vicende che accadono i tratti del disegno di Dio.
Giovanni conosceva bene Gesù di Nazaret. Possiamo dire che erano già buoni amici e cugini ancor prima di essere nati, come ricorda il Vangelo di Luca.
Non sappiamo nulla di una loro eventuale familiarità nel seguito della loro giovinezza, ma non erano certamente degli estranei per il forte legame che univa le rispettive madri.
Ora però Giovanni dice: «Io non lo conoscevo… Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me».
Dice non conoscerlo, non perché ne rinnega l’amicizia, ma perché la sua missione nei suoi confronti si fonda non sulla relazione umana che li unisce, ma sulla rivelazione di Dio.
Giovanni ripensa a quanto era accaduto nel battesimo di Gesù al Giordano, il giorno precedente, e riconosce in quel parente la potenza stessa di Dio.
Potremmo quasi quasi tornare a quell’incipt della lettera di Paolo: «Alla Chiesa di Dio che è a Corinto». Sta a Corinto, è radicata a questo mondo, ma la sua origine e la sua identità sono in Dio.
Molto di più Gesù Cristo. Appare dentro al limite di una carne umana, “è mio cugino” – potremmo dire con Giovanni -, si mette in fila con i peccatori, si sottomette a un rito di conversione e purificazione, ma «viene prima di me», la sua origine e la sua identità è in Dio.
Rimbomba ancora nel cuore di Giovanni la voce del Padre che era risuonata sulle acque: «E io ho visto e testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
Giovanni Battista era figlio del sacerdote Zaccaria, dunque un levita, sacerdote egli stesso. Giovanni compie l’ultimo atto sacerdotale dell’Antico Testamento indicando Gesù: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo».
Ricordiamo la pasqua dell’antico Israele, quando con il sangue dell’agnello immolato si segnavano le case degli Israeliti per preservarli dallo sterminio dei primogeniti.
Ma ricordiamo anche la profezia di Isaia: «Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca». «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti». (Is 53).
«Ecco l’agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo»: Gesù è il Figlio unigenito offerto in sacrificio, è la vittima che si carica del nostro peccato.
E non solo, notate, i peccati del popolo, ma «il peccato (al singolare) del mondo», per dire il male in senso radicale e profondo: il Battista dunque preannuncia la nuova, definitiva, radicale alleanza di pace tra Dio e ogni uomo, di ogni tempo e luogo.
«Dio nessuno lo ha mai visto», aveva detto l’evangelista: questa è la prima immagine che Gesù ci offre di Dio.
Un Dio che accetta la condizione di limite, di peccato e di morte; che diventa tutto ciò che noi siamo e non vorremmo essere; un Dio che è il contrario della proiezione dei nostri desideri!
«Sarai come Dio», così satana aveva aveva insinuato nel cuore di Adamo: il dio-satanico che altro non è che la proiezione delle nostre ambizioni frustrate.
Gesù si rivela un Dio impensabile, scandaloso per tutti, credenti e non credenti: colui che riteniamo sopra le nuvole è qui in terra; il puro spirito è carne; l’immortale mortale; il santo tra i peccatori; il giudice con i condannati; l’onnipotente impotente.
Gesù ci libera da quella immagine diabolica di Dio che, da Adamo in poi, tutti ci immaginiamo, piegandoci o ribellandoci a lui.
«Sarai come Dio»: non è più la voce di satana che ci seduce con l’orgoglio del potere, ma è la promessa del Nazareno che si carica del nostro peccato, per donarci di essere realmente «figli di Dio», una cosa sola con lui, la sua Chiesa.
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(omelia di don Andrea Caniato)